Ogni essere umano, fin dal primo istante del suo concepimento, fin dal momento in cui la cellula germinale femminile si unisce con quella maschile, dando così origine ad una nuova vita, ha il diritto di essere rispettato come persona e gli devono essere riconosciuti quei diritti propri della persona umana stessa, ed il primo fra questi è il diritto alla vita (cfr. Donum vitae, I, 1)
Nello sviluppo embrionale non possono esserci salti di qualità, che possono farlo passare dall’essere “cosa” all’essere persona. Il corpo umano può maturare come tale in quanto lo è già umano e non deve diventarlo, non c’è un momento in cui non lo sia, o lo sia di meno o stia per diventarlo!
Ma come mai stiamo parlando di tutto questo? Non sarebbe ovvio per tutti considerare l’inizio della vita umana allo stesso modo?
Questi interrogativi scaturiscono dal fatto che non tutti gli studiosi, filosofi, biologi e medici, riconoscono che, fin dall’istante del concepimento, ha inizio una nuova vita umana. Gli oppositori a tale riconoscimento affermano che non si può parlare di individuo umano fino al 14° giorno dalla fecondazione, data in cui avviene l’impianto in utero.
Prima di questo momento alcuni studiosi parlano di pre-embrione. Il motivo di questa differenziazione è dovuto al fatto che, le cellule embrionali sono totipotenti, fino a quando non è avvenuto l’impianto nell’utero, perché potrebbe avvenire la formazione di uno o più embrioni gemelli del primo. Secondo coloro che sostengono la tesi del pre-embrione, non è possibile, e né è ammissibile, parlare di una vita umana da considerare individuale, fino a quando il neoconcepito non abbia perso questa totipotenza, cioè solo al 14° giorno di vita embrionale.
E’ necessario, però, tenere presente che, anche nel caso in cui si sviluppi un gemello, questi non scaturisce da una divisione del primo sistema individuale, ma ne è uno nuovo che col primo ha in comune solo l’origine. Quando accade che prima del 14° giorno una o anche più cellule si distacchino dal sistema originario, si ha la formazione di un nuovo sistema che potrebbe tanto essere riassorbito, se c’è qualche problema, oppure dare luogo ad un secondo sistema che sia simile al primo, ma senza ombra di dubbio non è, e non può mai essere, una copia del primo sistema e neppure quest’ultimo che si sia sdoppiato.
Da tutto ciò si può affermare che il concetto di cellule totipotenziali non implica il non poter parlare di individuo umano fin dal concepimento.
Da un punto di vista prettamente biologico, possiamo dire che la vita umana inizia nel momento in cui i gameti, maschile e femminile, si uniscono. La cellula, chiamata zigote, è diversa sia dalle cellule materne che da quelle paterne e rivela già una sua specifica identità: ogni cellula derivante da essa, che andrà a formare la nuova persona umana, sarà identica a questa prima cellula.
Nello zigote è già stabilito quale sarà, per esempio, il colore degli occhi, la sua altezza, il timbro della sua voce, la forma del viso, e così via.
La stessa biologia ammette che la caratteristica scientifica, che va a costituire l’individuo appartenente alla razza umana, è costituita dal codice genetico.
L’essere umano è tale fin dal momento del concepimento e non può essere considerato diversamente, altrimenti si dovrebbe arrivare all’affermare l’assurdo e cioè che potrebbe diventare umano, con tutte le relative caratteristiche, “qualcosa” che invece è iniziata come non – umana.
Pure se l’embrione umano non è in grado di espletare tutte quelle funzioni tipicamente umane, non si può però non riconoscere che, dal momento del concepimento, si costituisce la capacità reale di poter attivare tutte quelle attività superiori per l’uomo. Non è necessario neppure attendere la cosiddetta stria primitiva, e neppure che il primo nucleo del sistema nervoso abbia la sua struttura, perché il frutto del concepimento possiede già la capacità necessaria sia per realizzare il cervello che la sua funzione .
E sull’inizio della vita dell’uomo ci sarebbe ancora da dire molto, ma molto di più.
Ma anche sulla sua “fine” c’è molto da dire.
Una volta un uomo si riteneva morto quando il suo cuore non batteva più, ma ora non è più così.
La scienza, la tecnica e la stessa medicina hanno permesso all’uomo di poter vivere più a lungo, di poter combattere contro molte malattie e di poter continuare a vivere, con l’aiuto di alcune macchine, anche quando il cuore o i nostri polmoni da soli non ci riuscirebbero più.
Tutto questo è da considerarsi senza dubbio positivamente ma anche qui arriviamo al paradosso.
Ora che è possibile riuscire a vivere più a lungo degli anni passati c’è chi invece vuole decidere quando sia arrivato il momento della fine di questa vita per un altro suo simile, soprattutto quando si parla di malattie gravi e terminali che portano già con sé un bagaglio non indifferente di sofferenza fisica e psicologica. Tutto ciò prende il nome di “eutanasia”.
E’ vero, il dolore per una malattia terminale è forte e, soprattutto lo diventa ancora di più se quest’arco terminale dell’esistenza viene vissuto nella solitudine, nell’abbandono e nel sentirsi come “un peso” per le persone che ci sono accanto.
Una volta un’infermiera di un reparto di malati terminali ha raccontato di non aver mai udito uno di questi pazienti chiedere di morire.
Una notte le è successa una cosa particolare che le ha fatto comprendere come si senta un malato in quelle condizioni e di cosa effettivamente abbia bisogno.
Ebbene un malato prima la chiama per chiederle di aprire un po’ la finestra, successivamente la chiama per chiederle un bicchiere d’acqua, poi la chiama per chiederle di essere spostato nel letto da una posizione ad un’altra, e poi….così alla fine l’infermiera comprende che il paziente aveva bisogno non proprio di una finestra più aperta, di un bicchiere d’acqua o di una posizione diversa in quel letto d’ospedale. Il paziente aveva bisogno di non sentirsi solo perché aveva paura e così si è seduta accanto a quel letto e lo ha fatto parlare e lo ha ascoltato per tutta la notte.
La preoccupazione del malato non era la sua prossima morte, ma il dolore per le persone che lo vedevano soffrire, il dolore perché non voleva sentirsi di peso ai suoi familiari, la sofferenza nel vedere le lacrime sui volti delle persone a lui più care.
Il dolore era per gli altri e non per se stesso!
Ma quando termina realmente la vita dell’uomo? Per poter rispondere a questa domanda basterebbe “lasciare” che la vita umana faccia il suo normale decorso, anche nella malattia e nella vecchiaia, e arrivi al suo termine in modo naturale, senza voler pretendere di “staccare le spine” e senza decidere al posto del Creatore quando il cammino terreno dell’uomo sia terminato.
Coloro che in determinati reparti ospedalieri ci lavorano da anni affermano sempre più che un malato terminale non chiede l’eutanasia, non chiede la morte, chiede invece la comprensione e l’amore dei suoi cari, di chi gli sta attorno, affinché possa essere aiutato ad affrontare quell’inevitabile momento da questa vita ad un’Altra Vita!
Adele Caramico Stenta
(pubblicato sulla Rivista “Milizia Mariana”, 2009)